Non fumare! Non abbuffarti! Non drogarti! Non giocare d’azzardo!
Secondo voi chi continua a ignorare gli imperativi lo fa perché pensa alla sua abitudine come a qualcosa di sano e corretto? Eppure gran parte delle campagne di sensibilizzazione sociale colorano i propri messaggi con toni prevalentemente prescrittivi.
Un interessante articolo del giornalista Oliver Burkeman, tradotto su Internazionale con il titolo Sottolineare un problema non significa risolverlo, commenta questa evidenza alla luce dei recenti risultati scientifici ottenuti da due ricercatrici statunitensi.
A ciò si aggiunge sicuramente il fatto che per alcuni il divieto di un determinato comportamento o di una determinata relazione può diventare una sorta di “frutto proibito”, generando risultati decisamente opposti a quelli desiderati. In uno studio condotto su un gruppo di adolescenti del Nord Europa (Keijsers et al., 2012), ad esempio, è stato rilevato come l’atto del proibire frequentazioni “sbagliate” da parte dei genitori non comporti altro che un aumento della delinquenza stessa dei ragazzi.
I processi di pensiero scaturiti da un richiamo, infatti, hanno un ruolo fondamentale nel determinare il nostro comportamento. Si pensi alla curiosa soluzione trovata dall’Aeroporto Schiphol di Amsterdam per tenere puliti i bagni pubblici maschili. Dopo numerosi tentativi di sensibilizzazione mediante l’uso di cartelli e raccomandazioni sulla necessità di urinare nel posto giusto, solamente l’uso di una mosca posizionata nel wc ha poi realmente ridotto le “mire fuori dal vaso”. A questo livello non possiamo però sapere quanto il risultato sia stato influenzato da un pensiero più o meno cosciente, o da un meccanismo evoluzionisticamente istintivo. Sta di fatto che ha funzionato.

La non utilità di un divieto diretto è spesso rintracciabile in molti dei contesti quotidiani che viviamo a livello familiare e non solo nel contesto sociale allargato. Fatta eccezione per alcune realtà in cui il divieto risulta davvero necessario, si pensi ad esempio alla regolamentazione del traffico stradale, esso può risultare in alcuni casi perfino deleterio. Quanti di noi vorrebbero liberarsi di una dipendenza dal cibo, dal fumo, dall’alcol, da una persona che diventa cardine della nostra vita, dal videogame che tanto adoriamo o in situazioni più gravi di una dipendenza che condiziona davvero la nostra esistenza?
Come la psicologia cognitiva insegna, ciò che sta alla base di tali meccanismi è proprio il nostro pensiero, quello che ci diciamo nella testa o le immagini che ci affiorano, ed è lì che bisogna intervenire. E’ necessario, tuttavia, che il soggetto svolga una parte attiva di ricerca e pratica del nuovo, quando necessario con supporto specialistico, pena lo scarso mantenimento del risultato nel tempo.
Non basta, infatti, essere consapevoli per modificare una condotta, serve un percorso di cambiamento più articolato che racchiuda in sè la comprensione delle ragioni, la motivazione e soprattutto la ricerca di una strada alternativa che renda auspicabile il cambiamento stesso… possibilmente autoprodotta e non fornita dal disperato estro creativo di un designer d’insetti!
Fonti:
- Burkeman O. Sottolineare un problema non significa risolverlo. Internazionale 26 Maggio 2015
- Keijsers L, Branje S, Hawk ST, Schwartz SJ, Frijns T, Koot HM, van Lier P, Meeus W. Forbidden friends as forbidden fruit: parental supervision of friendships, contact with deviant peers, and adolescent delinquency. Child Development (2012); 83(2): 651-666.
- Works That Work, No.1, Winter 2013: https://worksthatwork.com/1/urinal-fly
- Ruggiero GM, Sassaroli S. Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Ed. Cortina (2013)